Benvenuti nella pagina dedicata alla mia missione in Afghanistan-Pakistan

Inserito da Webmaster l' 8 Dicembre 2011  •  Commenti  • 

Dal 1996 al 2000 ho vissuto e lavorato dividendo, letteralmente, il mio tempo tra questi due Paesi. L'Afghanistan era un paese dilaniato da una guerra civile e militare da diversi anni, per cui gli l'uffici di tutte le agenzie delle Nazioni Unite erano stati rilocati a Islamabad, Pakistan, dove, pertanto, c'erano due separati uffici del Coordinatore Residente delle Nazioni Unite. Uno per il Pakistan, ed un altro - rilocato (e dichiaratamente provvisorio) - che si occupava dell'Afghanistan. Per tutto il periodo della mia missione, ho dunque trascorso una parte del mio tempo nei nostri uffici siti in Afghanistan, vivendo nelle cinque "UN Guesthouses", le quali, sia detto per inciso, erano gestite dal mio stesso ufficio. Dividerò, dunque, i miei ricordi descrivendo ciascuno dei due paesi; ma, anche se i ricordi si sovrappongono, cercherò di farlo in maniera sistematica, almeno geograficamente.

Il Pakistan

E' un paese magnifico con zone geografiche che vanno dal deserto al mare. Il Paese possiede una grande complessità geopolitica e culturale con una storia ricca e variegata dei vari gruppi etnici e politici. Nel Pakistan attuale, le fasce più abbienti, vivono bene, con un tenore di vita molto confortevole. Islamabad è, in gran parte una città moderna, con case residenziali negozi ben forniti. Ma esistono anche i quartieri dei poveri e diseredati, e la città gemella di Islamabad, Rawalpindi, è quasi completamente composta di quartieri popolari e poveri.
A Islamabad esiste anche un quartiere cristiano, considerato il più povero della capitale, nonostante la presenza della Chiesa Cattolica, che è dotata di notevoli mezzi organizzativi e finanziari, e lavora in maniera estremamente efficace. Ciò non toglie niente al fatto che, storicamente, i Cristiani di oggi siano, spesso, i discendenti degli antichi intoccabili, e rappresentano la parte più povera e diseredata della popolazione, quella cui vengono negati i diritti più elementari.
In Pakistan, i membri della porzione ricca e potente della popolazione si autodefiniscono, ancora oggi, "I feudali", e possiedono ancora, de facto interi villaggi con le loro popolazioni; hanno persino le loro carceri! Uno dei nostri vicini, un funzionario di grado altissimo, possedeva diversi villaggi e cambiava spesso il personale di casa, "prelevandoli" e "rimandandoli a casa" a suo piacimento. Inutile dire che non pagava loro niente: dava solamente loro da mangiare!
Islamabad è situata al confine con le Margalla Hills, colline che sono l'ultimo baluardo del massiccio del Kharakorum, cui appartiene l'Himalaya. Branchi di cinghiali arrivavano anche in città e non era difficile incrociarli se si usciva in macchina di notte. Nel nostro quartiere residenziale, a stretto contatto con le Margalla Hills, si evitava di uscire a piedi la notte, appunto per evitare incontri con cinghiali che potevano risultare pericolosi. I miei figli hanno avuto diversi incontri notturni con cinghiali aggressivi, uscendo di casa o rientrandovi.
In compenso, noi cacciavamo i cinghiali per cibarci delle loro carni, perché in Pakistan si trovavano tutti gli alimenti, tranne la carne di maiale, che è vietata dall'Islam, e in Pakistan è consumata dalla sola minoranza cristiana … e dagli stranieri di religione non islamica.
Ovviamente non cacciavamo le bestie che venivano in città, perché esse si nutrivano di immondizia e ciò avrebbe potuto causare problemi. Ci eravamo aggregati ad un nostro amico e vicino di casa dell'ambasciata italiana, il quale era un ottimo cacciatore e ci organizzava battute di caccia in boscaglia, specialmente sulle rive del fiume Indi, intorno alla diga di Tarbela, costruita da un consorzio internazionale capitanato dalla società italiana Impregilo.
Per qualche anno, grazie al nostro amico Roberto, siamo stati i procacciatori di carne di cinghiale per una buona parte della comunità internazionale di Islamabad.
E' stato un bel periodo, malgrado le complicazioni politiche con le autorità pakistane, derivanti dal fatto che i miei afghani (il personale della missione rilocata era appunto afghano) non erano sempre ben visti dalle autorità locali, e io dovevo spesso intervenire con le autorità di quel Paese, per difendere i diritti del personale afghano. Avevo anche contatti con il nostro Ministero degli Affari Esteri, dove c'era un'intera Divisione che si occupava dell'Afghanistan, e era ben informata, e desiderava esserlo anche di più. Avevamo perciò delle sedute quindicinali di reciprocal briefing, nel corso delle quali io dicevo al direttore, divenuto un mio amico personale, tutto quello che sapevo dei cambiamenti avvenuti nel Paese, e lui contraccambiava dicendomi tutto quello che poteva. Il che era sempre utile perché anche noi delle Nazioni Unite avevamo sviluppato l'abilità di "leggere tra le righe" di ciò che veniva detto in quelle riunioni.
Per tornare ai "miei afgani", che venivano sistematicamente vittimizzati da elementi della polizia locale, più di una volta è stato necessario che mi recassi a parlare con i capi di varie agenzie ufficiali, come appunto la polizia e l'ISI, (il potentissimo sistema di spionaggio dell'esercito). Ricordo che un giorno, dopo che avevo recuperato degli oggetti che erano stati "sequestrati" da alcuni poliziotti, un tenente che parlava molto bene l'inglese mi chiese, sornionamente, come stavano mia moglie ed i miei figli. La minaccia era assolutamente implicita ed io ne fui turbato, al punto che, ritornando a casa, ne parlai con il mio autista, uno dei pochi pakistani al nostro servizio (gli autisti erano quasi tutti afghani). Devo dire che correva voce che il mio amico-autista fosse un ufficiale dell'ISI, ma si è sempre comportato in maniera impeccabile. Devo dire che impeccabile lo fu particolarmente in quell'occasione. Due giorni dopo mi diede un bigliettino e mi disse di conservarlo, e di mostrarlo all'ufficiale di polizia in questione. Conteneva, oltre al nome del poliziotto stesso,anche quello della moglie e delle due bambine, con, a fianco di ciascune di esse, la scuola che frequentavano. La settimana dopo andammo a quel commissariato per ragioni ufficiali, ed io feci la mia sceneggiata, col tenente di cui sopra. Gli dissi qualcosa come: "…a proposito, spero che la sua famiglia stia bene, intendo ….", tirai ostentatamente fuori il bigliettino e lessi "… la signora Fatima, la piccola Farida, che va alla scuola "tal de tali", e la piccola Mariam, che frequenta la scuola…." e indicai anche il nome della seconda scuola. Devo dire che questo scambio di informazioni, perfettamente in linea con la tradizione del paese, funzionò in maniera egregia. Il tenente divenne molto cooperativo e perse, istantaneamente, la sua precedente tracotanza. E non ci riprovò mai più a ricattarmi sulla mia famiglia! Molto probabilmente, la solida reputazione di vendetta di cui godono gli afgani, e la precisione delle informazioni in mio possesso, ebbero risultati assolutamente insperati! Ciò detto, devo dire che ho avuto moltissimi ottimi amici pakistani, in tutte le classi sociali, da ministri a mendicanti. Francamente, rimpiango il paese, anche se, con i recenti sviluppi che ci sono stati, non credo ci tornerei in vacanza!

L'Afghanistan

L'Afghanistan che ho conosciuto è quello dei Talibani. Io ero a Kabul quando essi si accingevano a conquistare la capitale e lasciai la città un giorno prima dell'attacco che portò alla conquista di Kabul, ritornando a Islamabad su richiesta specifica (leggi ordine) del mio capo. Due giorni dopo la "conquista" talebana, quando la situazione si era, più o meno, normalizzata ritornai a Kabul: nessuno di noi voleva dar l'impressione che gli uffici delle Nazioni Unite fossero sguarniti di responsabili internazionali. Ricordo che, il giorno stesso del mio ritorno, ci fu comunicato il nuovo nome del Paese che in Inglese suonava come Islamic Amirate of Afghanistan. Sottolineo la parola Amirate che suona come la parola proto-araba "Amir", che già in arabo classico si dice "Emir", e che indica un capo che è insieme politico e religioso. Con l'Amirato Islamico ebbi, poi a che fare per il resto della mia missione in Afghanistan. Ricordo che, almeno all'inizio, la reazione della popolazione fu quasi favorevole, perché molti gruppi armati perpetravano continue violazioni dei diritti della popolazione, che andavano dalla rapina alla violenza carnale contro le donne.
All'arrivo dei Talebani ci furono alcune esecuzioni sommarie, per impiccagione. Il metodo era semplice ma efficace: il colevole veniva appeso con una fune ad un cappio, di cui l'altra estremità veniva legata al cannone abbassato di un carro armato. La torretta veniva, poi, fatta ruotare e il cannone alzato, fino a produrre, appunto la morte del condannato. Descrivo questa operazione non per averla mai vista: mi sono sempre rifiutato di presenziare un'esecuzione, anche perché la mia presenza avrebbe potuto essere interpretata come un avallo dell'operato. La sicurezza fu reintrodotta "manu militari", o meglio, "Manu Talebana".
A questo proposito vorrei raccontare un altro episodio di esecuzione pubblica nel rispetto della tradizione shariatica afghana. C'era stato un omicidio, ed il colpevole fu identificato immediatamente. Secondo la tradizione, la morte del colpevole, per taglio della gola, doveva essere data da un membro del clan "offeso", cioè dalla famiglia allargata della vittima. Tutti gli stranieri dimoranti a Kabul in quel periodo furono invitati allo stadio, dove sarebbe avvenuta l'esecuzione della sentenza di morte. Il problema di chi dovesse eseguire la sentenza era però complesso, perché chi lo avesse fatto sarebbe stato l'oggetto della vendetta da parte della famiglia del colpevole, ed avrebbe avuto a sua volta, quasi certamente, la gola tagliata. Ovviamente io non andai all'esecuzione, ma mi fu riferito che il colpevole fu condotto con mani e piedi legati, e che a eseguire la sentenza era stata una donna "molto vecchia" del clan "offeso". Evidentemente, tale clan aveva pensato che, essendo la donna già molto vecchia, la prevedibile vendetta del clan dell'ucciso non avrebbe avuto conseguenze drammatiche per la capacità di difesa del clan stesso: in altre parole, la vecchia era "spendibile"!
Sul piano professionale, tra le cose più difficili c'era la verifica dell'esecuzione di lavori commissionati ed eseguiti, che sono la precondizione per il pagamento finale. Col paese in guerra, la cosa non era facile. Un'altra delle difficoltà era costituita, appunto dai pagamenti che dovevamo fare "in situ". Non c'erano banche, la Rupia afghana era inesistente, e tutti i pagamenti dovevano essere effettuati in contanti ed in dollari americani. In un paese in guerra, la vita umana non ha mai molto valore, e tale era anche il caso del "mio" Afghanistan: nella fattispecie una pallottola costava due centesimi di dollaro, e trasportare diecine di migliaia di dollari in contanti costituiva un rischio notevole. Al mio arrivo a Islamabad ero stato costretto a cambiare totalmente la routine dei pagamenti. Per prima cosa, invece di andare in banca il giorno prima dell'invio di grosse somme in Afghanistan, per ritirare, appunto tali somme, avevo fatto istallare una cassaforte molto solida in ufficio, anche se mantenerla "piena" costituiva, indubbiamente un rischio. Ma, dovendo scegliere, consideravo quello di essere svaligiati durante la notte a Islamanad come inferiore a quello di andare in banca a prelevare fondi poco prima dei pagamenti in Afghanistan: non facevamo che informare eventuali male intenzionati del prossimo arrivo dei contanti, ciò che avrebbe messo il nostro "corriere" a rischio di venire eliminato. Più di una volta, infatti, fui proprio io a portare grosse somme a Kabul, per effettuare i pagamenti che erano necessari al buon andamento delle operazioni (dagli stipendi ai contratti da onorare).
Ben presto la situazione si fece più difficile per la popolazione: le donne non potevano più lavorare, dovevano coprirsi anche le caviglie, le bambine non avevano più il diritto di andare a scuola. Una svolta drammatica alle operazioni delle Nazioni Unite ci fu quando i Talebani introdussero l'obbligo, per le donne che viaggiavano, ad essere accompagnate da un maschio di famiglia, il marito o un fratello. Da un giorno all'altro, il numero di posti negli aerei da e per l'Afghanistan si incrementò di più di un terzo, e così fu per i posti-letto nelle UN guesthouses: non avendo fondi sufficienti per almeno un altro aereo e per allargare le capacità di alloggiare il personale, dovemmo chiudere le operazioni per qualche mese! La tensione tra noi e i Talebani fu incrementata dall'affare "Emma Bonino" (fu arrestata dai Talebani insieme ad una nota giornalista americana), e culminò nell'espulsione dal Paese del nostro Coordinatore Residente, il quale fu dichiarato "persona non grata"; poi le cose si rimisero gradualmente in marcia.
Seguono alcune foto dell'epoca. Cliccare sulle anteprime per visualizzare le immagini a più grande risoluzione

Eccomi in mezzo ad un gruppo di Talebani che avevo incontrato durante un picknik di fine settimana. Io indossavo già il tradizionale turbante, che era di colore blu (il colore delle Nazioni Unite) di proposito, per distinguermi dai loro.
Infatti il turbante nero idicava un combattente attivo, mentre quello bianco un "amministratore. Quelli coll cappellino a forma cilindrica, erano ancora degli "aspiranti Talebani. In alcune occasioni, ne indossavo uno io stesso, come mostrato in una delle foto successive.

Un momento della loro preghiera durante il picknik.

Ho intitolato questa foto "richiesta-consiglio di fermarsi". Infatti eravamo in convoglio con diversi veicoli pieni di materiale e viveri, quando il comandante il cui territorio di competenza ci accingevamo ad attraver-sare, espresse il desiderio che, in quel momento, noi non avanzassimo più su quella strada. Come si può vedere, il desiderio del comandante in questione fu espresso in maniera tale che non resistemmo al suo gentile invito: un colpo di mortaio a tre-quattrocento metri avanti a noi sulla stessa strada.

Un momento di una distribuzione di viveri.

Mia moglie Antonella a Islamabad, nello studio-dispensario di Mary Hart, una dottoressa irlandese sposata con un medico italiano.

Una donna in abiti tradizionali antichi.

mio figlio a Peshawar, Pakistan, che prova un Khalashnikof fatto in Pakistan dagli artigiani locali.

Un ponte e gente in attesa, in una località afghana che non ricordo. I miei figli visitarono l'Afganistan autonomamente, con un gruppo di amici italiani. Le Nazioni Unite non permettevno ai familiari dei funzionari di andarvi senza un motivo specifico. Fui informato del viaggio di Lorenzo e Luca solo dopo la loro partenza!

In questa foto, e in quella successiva, due bei paesaggi afghani.

Io e il mio amico menre scuoiavamo un grosso cinghiale. Il folto pelo dei cinghiali della regione non poteva essere bruciato senza fare molto fumo, e produrre molta puzza. Poiché si trattava di un animale proibito, gli abitanti si sarebbero risentiti di essere stati esposti all'odore di un animale impuro; perciò noi scuoiavamo i cinghiali, invece di bruciare i peli e recuperare le cotenne!