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Inserito da Webmaster il 30 Novembre 2011  •  Commenti  • 

Nel 1884, con la Conferenza di Berlino, iniziò una lunga lotta sanguinosa in cui tre stati si contendevano la Somalia. L'Italia, la Gran Bretagna e la Francia si spartirono il suo territorio nel tardo XIX secolo. Nel 1869 il governo italiano comprò dal sultano di Zanzibar, che a quel tempo governava la Somalia, il territorio in questione ed ottenne un protettorato sul paese. La Somalia, dunque fu "conquistata" dall'Italia non dalle armi, ma dall'oro. Infatti a quell'epoca, già  esistevano territori italiani privati, poi ceduti allo stato italiano. Tutta l'area geografica del corno d'Africa era contesa tra Inghilterra, Italia e Francia. Il Regno d'Italia cominciò a penetrare nell'area somala vent'anni dopo, creando di una vera e propria colonia
Numerosi coloni italiani si radicarono nella Somalia italiana, specialmente nella capitale Mogadiscio dove gli Italo-somali erano 20.000 (su un totale di 50.000 abitanti) nel 1938. Negli anni trenta la Somalia ebbe un certo sviluppo economico, centrato sull'esportazione di banane e prodotti agricoli grazie anche alla costruzione di strade carrozzabili ed alle moderne infrastrutture di cui fu dotato il porto di Mogadiscio.
La capitale Mogadiscio ebbe un notevole sviluppo urbano. Nel 1936, dopo la guerra d'Etiopia, la Somalia Italiana entrò a far parte dell'Africa Orientale Italiana insieme all'Etiopia, l'Eritrea e l'Ogaden. Nell'estate 1940 le truppe italiane occuparono la Somalia Britannica e parte del Kenia confinante col fiume Giuba. Questi territori furono annessi alla Somalia italiana ingrandendola ed ottenendo -anche se per pochi mesi- l'unione territoriale di tutti i Somali nella "Grande Somalia". Nel 1941, nel corso della seconda guerra mondiale fu occupata da truppe britanniche, che ne mantennero il controllo fino al novembre del 1949, quando le Nazioni Unite la diedero in Amministrazione fiduciaria alla Repubblica italiana, che creò l'Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (A.F.I.S.).
Si trattava di una Amministrazione fiduciaria delle Nazioni Unite sull'ex Somalia italiana, a partire dal 1 gennaio 1950, affidata alla Repubblica italiana per preparare il paese all'indipendenza, che fu ottenuta il 1 luglio 1960, quando la ex Somalia Italiana e la Somalia Britannica si unirono nell'attuale Repubblica di Somalia, mentre Gibuti (ex Somalia Francese) divenne indipendente nel 1977.
Quando arrivammo in Somalia, con tutta la mia famiglia di origine, il paese era governato dal presidente Siad Barre ed il governo somalo era già in carica. In quel periodo si discuteva di come scrivere la lingua somala che, fino a quel momento, era stata solo parlata, per di più in diversi dialetti. Erano "candidati" a tale processo, (che avrebbe fatalmente apportato, col tempo, delle modifiche alla lingua stessa) l'alfabeto latino, quello arabo ed un alfabeto creato a posta per la lingua somala, che si chiamava "osmanico", dal nome del suo inventore, un certo Osman. Era stato scelto l'alfabeto latino ed il processo di codificazione della lingua scritta era già iniziato, anche con l'aiuto di linguisti italiani ed inglesi.
Ricordo ancora il mio primo impatto col paese, che trovavo di una bellezza struggente. Un mare ricchissimo e incontaminato, dove si pescavano triglie grigie che arrivavano ad un kilo di peso; il paesaggio sottomarino era di una bellezza incredibile con le sue madrepore, i suoi coralli, la sua barriera corallina, che offriva per le spiagge una certa protezione dai pescecani. Qualche volta gli squali arrivavano fino alle zone balneari), ma ciò non ci impediva di praticare in gruppo la pesca subacquea: tipicamente, due sub pescavano e un terzo sorvegliava il mare per prevenire eventuali attacchi degli squali.

Il paesaggio terrestre, la famosa "boscaglia" somala, era un vero paradiso terrestre, popolato da tutti gli animali di cui avevo sentito parlare e visto solo al circo. I leoni somali, per esempio, sono privi di criniera, o ne hanno una molto rada, a differenza di quelli della vicina Eritrea, dove hanno una criniera folta, dalle caratteristiche punte nere. C'erano tutti i tipi di gazzella, dal grandissimo Kudu maggiore, al piccolissimo dik dik, la più piccola tra le gazzelle, delle dimensioni di un coniglio. C'erano giraffe, struzzi, licaoni, iene, enormi branchi di gnu e numerosi gruppi familiari di facoceri. I rinoceronti erano abbastanza rari, ma si vedevano di tanto in tanto; gli elefanti di savana erano davvero numerosi, e davano uno spettacolo incredibile quando si muovevano in gruppi di oltre un centinaio di esemplari.
Devo confessare che quel mio primo contatto con la cosiddetta "Africa Nera" mi lasciò folgorato! Dalla sua bellezza e dall'unicità della sua gente. Ricordo che la prima volta che vidi i somali passeggiare tranquillamente sotto una pioggia torrenziale non riuscii a capire la loro flemma, che mi soprese e irritò. La mia perplessità durò fino alla prima volta che la pioggia colse me nel centro du una piazza: nel giro di pochi secondi, il tempo di attraversare la piazza stessa, ero bagnato come se fossi stato sotto una cascata. E in quelle condizioni non solo non aveva senso correre, ma era anche difficile: i panni rimanevano attaccati addosso, impedendo movimenti bruschi e veloci.
La Somalia ha costituito la svolta della mia vita: da quando vi ho soggiornato ho sofferto di "mal d'Africa". Il che mi ha portato a spendere diversi anni della mia vita nel continente africano, lavorando e studiandone la storia e le lingue.
Prima di passare ad altri paesi, vorrei raccontare l'altro episodio della mia vita, in cui ho utilizzato la mia conoscenza delle arti marziali al di fuori del dojo perché, a differenza di quello dell'Algeria, è stato divertentissimo. Da premettere che, in quel periodo io insegnavo Karate: avevo una classe tre volte alla settimana alla Casa di'Italia (il club italiano) ed un'altra classe nel cosiddetto "quartiere africano", che, nel gergo italiano locale era dovunque non ci fosse una predominanza bianca. Devo dire che gl'italiani residenti a Mogadiscio non vedevano di buon occhio che io insegnassi un'arte marziale a dei somali, la consideravano quasi come un tradimento da parte mia. Ma io avevo le mie idee, e tre giorni alla settimana ero in un piccolo hangar a insegnare ai ragazzi somali, per cui ero ben conosciuto in tutti gli ambienti di Mogadiscio, tanto quelli italiani (ed espatriati in genere) che quelli somali. Per venire all'episodio in questione, accadde che mentre stavo guidando la mia autovettura, mi piovve sul tetto un mazzo di chiavi, che fece un rumore infernale. Fermai il motore e scesi, rendendomi conto appunto che il rumore era stato generato da un mazzo di chiavi. A quel punto un giovane somalo, di pelle non scurissima, che io presi per un "bravano", cioè per un abitante della città di Brava, che hanno un colorito di pelle più chiaro del nero-blu di molti clan somali. Costui mi tese la mano per richiedere le chiavi. Io non gliele consegnai subito, e gli chiesi, in italiano, perché le avesse tirate sul tetto della mia macchina. Non rispose, ma mi spinse per impadronirsi delle chiavi stesse. Devo dire che era un gigante, alto più di due metri, ma di corporatura robusta, a differenza di molti somali che sono abbastanza longilinei. Inoltre era anche molto muscoloso e pur non colpendomi con cattiveria, continuava a cercare di levarmi le chiavi dalle mani. Era arrivato tanto vicono a me che io ero troppo vicino per poter usare delle tecniche di karate efficenti e preferii allontanarmi, ma lui mi afferrò le mani, nel tentativo di impedirmi di andarmene (con le "sue" chiavi). A questo punto, per liberarmi di lui io chiesi aiuto al vecchio judo, usando una tecnica di sutemi (parola giapponese che significa "sacrificio", perché si sacrifica la posizione eretta e ci si fa cadere al suolo insieme all'avversario, proiettandolo). La tecnica, si chiama Tomoe Nage (chi è interessato può fare una ricerca in internet, dove ci sono innumerevoli filmati). Per questa tecnica, però, bisogna trattenere le braccia o il kimono dell'avversario per fargli fare una capriola, in caso contrario l'avversario partirebbe pancia sotto, per la tangente, atterrerebbe sul ventre, e correrebbe il rischio di farsi male alle ginocchia. Nel momento in cui eseguivo la proiezione, però, lui mi strattonò le mani e si liberò le braccia. Siccome la proiezione era stata veloce atterrò a un paio di metri da me, ma con mio grande stupore, battè con forza il suolo con le due mani (esattamente come si fa nel "dojo") fece da solo la capriola, e già era in piedi qualche momento prima di me! A questo punto, francamente io ebbi l'impressione di esser caduto in un tranello: la persona era chiaramente molto ben addestrata, perché è impossibile fare quello che aveva appena fatto senza un addestramento specifico. Inoltre era grosso ed aveva una forma fisica impeccabile. In quel periodo le relazioni tra i somali e gli italiani si stavano già deteriorando, almeno a livello locale e io pensai ad una provocazione. Mi misi quindi in posizione di combattimento, aspettando l'attacco del mio avversario. Nel frattempo, un mio amico italiano, che era al ristorante "Cappuccetto nero", vedendomi in alterco con un somalo, e conscio del fatto che avrei potuto avere delle noie serie con la polizia, corse alle mie spalle e mi cinturò. Il mio avversario mi sferrò un pugno sullo zigomo, mi levò tranquillamente le "sue" chiavi dalla mano sinistra e se ne andò rapidamente. Il risultato fu che la sera, alla mia classe della "Casa d'Italia" il maestro di karate aveva un vistosissimo occhio nero. Io sapevo di non essere molto popolare, ma vidi molti ghigni, non solo per il fatto che le avessi chiaramente prese, ma anche perché a darmi "la lezione" era stato un somalo! Avrei così imparato a insegnare ai somali! Ingoiai l'imbarazzo col sorriso e continuai la mia lezione. Il culmine di quest'avventura, però, lo ebbi la sera dopo, quando questa persona si presentò alla mia classe nel quartiere somalo. Venne, si inchinò (giapponesemente) davanti a tutti, e mi chiese, in francese, se io parlassi quella lingua. Quando gli risposi affermativamente, mi raccontò la sua storia. Era un somalo di Gibuti ed era stato per quindici anni nella Legione Straniera Francese, arrivando al grado di sergente maggiore. Aveva disertato appunto a Gibuti, non potendo sopportare il trattamento che i francesi elargivano ai suoi compatrioti. Per l'episodio delle chiavi, le aveva lanciate a un amico dall'altra parte della strada, sbagliando la mira proprio mentre passava la mia macchina; voleva ardentemente recuperarle perché non erano le sue! Non aveva risposto alle mie domande perché non parlava italiano, ma solo somalo, francese e un po' d'inglese. Ed era stato istruttore di "close combat" nella Legione Straniera! Inutile dire che stringemmo una bellissima amicizia, lui divenne il mio sempai (anche se era più forte di me, lui riconobbe che io avevo una conoscenza tecnica migliore della sua e fu felice di farmi da assistente). Mi disse il suo nome somalo, (cioè il nome suo, quello di suo padre e quello di suo nonno, secondo la tradizione somala) ma mi chiese di chiamarlo Jaques, per ragioni di sicurezza (per la Legione Straniera era ancora un disertore). La nostra amicizia è durata molti anni, ci siamo persi di vista solo una ventina di anni fa. Subito dopo quell'episodio, fu nominato ufficiale della polizia somala e fece rapidamente carriera!
Ciao Jaques, amico mio, spero che tu sia felice, dovunque tu sia!!!