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Mio padre, con mia madre e me al seguito, servì in Algeria proprio durante il colpo di stato di Boumedienne, nel 1965.
Nel Paese, la xenofobia che si era sviluppata durante la lunga lotta di liberazione contro il colonialismo francese era ancora palpabile e, per un giovanotto quale io ero all'epoca, non era una vita facile: da una parte il poco arabo parlato che avevo imparato in Siria non serviva a molto, perché la lingua parlata in Algeria era molto diversa, con connotazioni provenienti dalle lingue berbere. D'altra parte, proprio a causa del difficile periodo storico, l'integrazione non fu possibile, e la comunità internazionale viveva costantemente isolata, frequentando un Hotel-Casino che si chiamava Aletti (pronunziato alla francese, con l'accento sulla i). Si usciva poco di casa e la vita era abbastanza monotona.
Fummo anche abbastanza sfortunati nella vita sociale: abitavamo in un appartamento al terzo piano di un immobile nel quartiere allora "nobile", che prendeva il nome di "Redoute". Una sera davamo una festa a cui partecipavano moltissimi dei pochi espatriati che vivevano ad Algeri, una buona trentina di persone. Durante la festa, dei ladri-acrobati si arrampicarono fino al terzo piano dalla grondaia, penetrarono nell'appartamento, chiusero la stanza da letto dei miei genitori dall'interno e rubarono tutti i gioielli di mia madre. Quando ci accorgemmo che qualcosa non andava era, ovviamente, troppo tardi. La perdita in termini economici non era molto significativa, ma lo era moltissimo dal punto di vista morale. A parte il sentirsi "violati", mia madre ha per anni sofferto per la perdita delle povere gioie che le aveva lasciato mia nonna, morta pochi anni addietro, o dell'anello di fidanzamento ricevuto da mio padre quand'erano in procinto di sposarsi, come usava allora, nel'39. Noi ragazzi eravamo invece ammirati dall'abilità e audacia mostrata dai ladri: entrare in un appartamento pieno di gente. Soltanto oggi, con l'esperienza di vita che ho accumulato, mi rendo conto che fummo fortunati: se avessimo scoperto i ladri, forse ci sarebbe scappato qualche morto (e non certo da parte "loro")!!!
Come ripeto, l'Algeria è un paese bellissimo, ma non ebbi occasione di vederlo veramente, a causa dell'atmosfera "pesante" che circondava la piccola comunità espatriata. Conosco solo Algeri, Bone e Costantine, non ho quasi ricordi del paesaggio, e quelli che ho non sono particolarmente felici. E, ovviamente, non ho foto dell'epoca da mostrare!
Vorrei, però condividere un episodio che all'epoca vissi in maniera drammatica: Io ho per molti anni praticato (e anche -immeritatamente - insegnato) il karate di stile shotokan. Al di fuori del dojo, però non ho mai messo in pratica l'arte marziale, con due eccezioni solamente. Questa prima eccezione avvenne appunto in Algeria, e ripeto, fu drammatica, mentre l'altrao episodio "anomalo" che mi vide praticare le arti marziali fuori del dojo avvenne in Somalia e, al contrario di questa, fu veramente divertente (la racconterò nell'apposita sezione dedicata a quel Paese).
Un giorno stavo guidando l'autovettura di mio padre per andare a "far benzina" ad un distributore situato vicino al suo ufficio, una sezione distaccata del Ministero dell'Agricoltura. L'auto che mi precedeva mi tagliò improvvisamente la strada, senza mettere la "freccia", ed io riuscii a fatica ad evitare la collisione. Quando lo superai, misi la mano fuori del mio finestrino aprendo e chiudendo le dita, per indicare che avrebbe dovuto segnalare, appunto con la freccia, il suo cambiamento di direzione. Arrivato al distributore, il giovane conducente, che mi aveva chiaramente seguito, corse ad aprire la mia portiera, mi afferrò per il bavero della camicia, obbligandomi a uscire dall'autovettura, e mi chiese cosa avessi inteso col mio gesto.
Glielo spiegai rapidamente, ripetendo il gesto che mima l'accensione e spegnimento delle "frecce" che indicano il cambiamento di direzione. Lui mormorò frasi contro "gli stranieri" e cercò di prendermi a schiaffi, ma io lo bloccai con le braccia e le mani. Visti falliti i suoi tentativi, il giovanotto fece due passi indietro, tirò lentamente fuori un lungo coltello a serramanico e, sempre molto lentamente, lo aprì. Io non potevo stare a guardare senza reagire: gli accoltellamenti mortali erano all'ordine del giorno in quel periodo ad Algeri. Perciò feci io un passo verso di lui e gli tirai un forte calcio agli stinchi, quasi all'altezza del ginocchio. Poi, trasportato dal mio stesso impeto, bloccai la sua destra, armata del coltello, con il mio braccio sinistro, mentre i nostri due corpi venivano quasi a contatto. A questo punto usai automaticamente una tecnica che i giapponesi chiamano "kubi atemi", e i francesi, molto più semplicemente "coup de boule": una testata, che, in quel caso, devo ammettere, fu molto violenta. Ricordo che, d'istinto evitai di dargliela sulla bocca: gli avrei procurato danni permanenti alla dentatura, ma lo colpii al setto nasale. Il colpo lo fece cadere in terra e rimase seduto sul cemento, con il coltello che gli era caduto di mano a pochi centimetri dalla stessa. Ebbi il tempo di dare un calcio al coltello, non solo per allontanarlo da lui, ma anche per far notare a eventuali testimoni che il mio avversario era armato.
Risalii velocemente in macchina e tornai, dritto, a casa. Ero pieno di paure: io e l'auto di mio padre eravamo conosciuti nella zona e avrei potuto essere identificato e fatto oggetto della vendetta del mio aggressore. In più, la polizia non era tenera con gli stranieri che venivano in conflitto con cittadini algerini. Dopo riflessione, fui costretto a confessare l'episodio ai miei genitori, perché mio padre guidava spesso la sua autovettura e avrebbe potuto essere aggredito, oltre che dover rispondere alla polizia. Ricordo che ritornai a piedi al distributore di benzina solo dopo due giorni. Il vecchio gestore, mi accolse con un sorriso e mi confessò immediatamente di aver detto al mio aggressore di non conoscermi. Quando gli chiesi cosa avesse detto alla polizia, mi informò che il mio aggressore-vittima se ne era andato immediatamente dopo, senza l'intervento delle forze dell'ordine. Si trattava, mi disse, di un piccolo delinquente che bazzicava quei luoghi con una banda di giovani teppisti, ma, aggiunse quasi con sollievo, di non averlo più visto dal momento dell'incidente. Risultò anche chiaro, dal tono della voce e dall'aria "complice" del vecchio, che il fatto di non vedere più la banda lì intorno non gli dispiacesse affatto!
Rassicurato sulla questione, rimaneva, però il problema della vendetta: se riusciva ad identificarmi, poteva benissimo vendicarsi su di me o sui miei genitori. Papà era quasi alla fine della sua missione e doveva, in ogni caso vendere la macchina; accelerando il processo, riuscì a venderla la settimana dopo ad un signore che abitava a Costantine. Così, passammo l'ultimo mese senza automobile, girando in taxi, perché, ovviamente, gli autobus erano più a rischio. Francamente, fui contento di lasciare il paese dove c'era, piuttosto che una spada, quel metaforico "coltello di Damocle" sospeso sulla mia testa.